Antonio De Lisa- L’opera d’arte come object ambigu

Il corridoio di una galleria d’arte. Quadri alle pareti, in un ordine approssimativamente intenzionale. Qualcuno suona qualcosa. Qualcun altro, ivi convocato, osserva, cerca di seguire la musica, si chiede che cosa ci faccia lì proprio la musica, incerto se collocarla nello sfondo della tappezzeria o attribuirle un qualche significato di primo piano. Si, ma quale? Ecco la domanda di quell’osservatore intenzionale, dal cui punto di vista possiamo osservare la scena. Se questo è uno sfondo possibile vogliamo porre una domanda, forse più d’una, nel tentativo di articolare una riflessione. E nel porre la domanda si cerca di estrarre dalla situazione uno spunto  simbolico, dato che ci sono più motivi di interesse che possono essere esplicitati proprio se si dimentica la tentazione di essere esaustivi. Questo spunto serve a circoscrivere il campo e nello stesso tempo ad allargarlo. Infatti, non è qui in discussione il tipo di musica né la critica di quella musica, come non lo è il tipo di pittura o la critica di quella pittura. In gioco è la situazione estetica che si viene a creare e la riflessione storico-simbolica che essa propone.

Chi scrive ha avuto modo di notare in questi ultimi anni un incremento di interesse per questa problematica dell’intreccio tra musica e arti visive, non ultimo proprio nella sede italiana dove queste due arti celebrano un confronto ad alto livello, cioè la Biennale di Venezia. [1] In quella circostanza sono emersi parecchi spunti di lavoro che in un contesto diverso si elaborano qui, ulteriormente approfonditi.

Colori e volumi

Che cosa succede quando il suono interagisce col colore o col segno grafico? C’è qualche forza interna che spinge il suono verso il colore, forse nel tentativo di diventare anch’esso colore, o in qualche modo cerca un riconoscimento epifenomenico che esso colore è già, senza ulteriori residui? E se è così,  si pone, allora, la cruciale questione estetica del passaggio delle microfluttuazioni timbrico-coloristiche del suono dallo stato di ornamento  a quello di testo. Tale questione rimanda a un’altra, più generale: quello del passaggio della musica alla condizione di Sound Art.

Si può delineare una storia abbastanza precisa, in ambito novecentesco, dei rapporti tra le forme dei colori e quella della musica:

“Vasilij Kandinskij -scrive Manlio Brusatin – riflette (…) un destino di consonanze fra la forma dei colori (1912) e i suoni musicali (azzurro-flauto, blu-violoncello), riassumendo con grande chiarezza per uso degli artisti, e a esplicitazione della sua produzione artistica, il tema dei colori fisiologici presenti in Goethe, sensibilizzandoli verso le armonie dei suoni e ai parallelismi con la musica”. [2]

E ancora, dal punto di vista musicale: “La ricerca del Farbklangbildt teorizzata da Schoenberg a conclusione della Harmonielehre(1911) appariva già sperimentata da Webern nel tema esatto  della Klangfarbenmelodie nei Sei pezzi per orchestra (op. 6) del 1909”. Ma per arrivare alla definizione precisa di questo dislocamento estetico dobbiamo spingerci fino ai giorni nostri e precisamente nell’area compositiva dei cosiddetti “spettralisti” francesi.

“L’oggetto principale del lavoro compositivo -ha scritto Tristan Murail in riferimento a Giacinto Scelsi in una trasparente ordito teso a congiungere in rete l’avventura rivoluzionaria di alcuni grandi precorritori del Novecento all’esperienza della “musica spettrale”- diventa allora ciò che Scelsi chiama la profondità del suono, intendendo naturalmente con ciò il lavoro sul timbro inteso nella sua accezione più larga: il timbro dell’orchestra nella sua globalità. L’attenzione del compositore si concentra quindi sugli andamenti, sulle densità, sui registri, sul dinamismo interno, sulle variazioni e microvariazioni del timbro di ogni strumento: modi di attacco, di dialogo, modificazioni spettrali, modulazioni di frequenza o d’intensità. Gli archi sono evidentemente l’oggetto prediletto di questo lavoro, per la loro grande morbidezza e il controllo fine del timbro che consentono (senza porre problemi di omogeneità). Questa ossessione del suono fa inscrivere Scelsi, ancora una volta, in un grande movimento della musica occidentale, in cui il timbro, una volta insignificante rispetto alla scrittura, viene recuperato, riconosciuto come fenomeno autonomo dapprima, e successivamente come categoria a tutti gli effetti – finendo quasi per sommergere, o meglio fagocitare, le altre dimensioni del discorso musicale: è così che le microfluttuazioni del suono (glissato, vibrato, cambiamenti di spettro, tremoli…) passano dallo stato di ornamento  a quello di testo”.[3]

Ci sono molte ragioni perchè questo sia avvenuto nella storia dell’arte occidentale, non ultima quella di aderire con una ragione più intima alla natura naturans in contrapposizione ai paludamenti della storia ufficiale:

“Il colore è il mezzo unico, specifico, del pittore”,   ha scritto Mario De Micheli in riferimento a Cézanne. “L’artista ha solo questo mezzo per compiere il miracolo dell’arte. Ma in realtà il colore non è anche il mezzo fondamentale della natura per manifestare se stessa? Una volta ‘si componeva un paesaggio come una scena storica, composto dal di fuori, e non si sapeva che la natura è più in profondità che in superficie.  Si può modificare, adornare, azzimare la superficie, ma non si può attingere la profondità senza attingere la verità. I colori sono l’espressione di questa profondità alla supeficie, salgono su dalle radici del mondo’. Come dunque la natura manifesta la sua verità attraverso le forme colorate, allo stesso modo, attraverso le sue forme colorate, il quadro deve manifestare la sostanza poetica che lo nutre (…) La pittura di Cézanne non può essere perciò una pittura grafica o disegnata, ma una pittura plastica, di volumi”. [4]

Analogamente, si può dire che il pensiero compositivo abbandona la linearità classico-contrappuntistica o la concatenazione delle funzioni armoniche per fare musica volumetrica (un esempio: Xenakis). Ed è questo, un importantissimo cambio di paradigma, a cui bisognerà prestare l’attenzione adeguata nel prosieguo di questo discorso. Dal momento in cui la sensibilità al colore e di conseguenza al volume irrompe in musica le cose non saranno più le stesse e potrebbe essere più interessante considerare l’arte dei suoni sotto la specie di Sound Art – una scultura del suono-  piuttosto che sotto la specie di musica storicamente intesa. Ma la musica non è la pittura, e al di là delle analogie dei riferimenti vedremo come i suoi elementi più propri, cioè ritmo, silenzio, suono organizzato screzieranno in maniera originale la texture timbrico-coloristica.

Il colore in movimento

L’occhio vivente continua il suo percorso virtuale (virtuale proprio perché trascende l’occasione immediata, senza tuttavia dimenticarla). Osserva che prima di tutto si tratta di un’arte, nella duplice veste sonora e visiva, non narrativa. Sulla tela è abolito il gioco della figurazione, in partitura non ci sono temi riconoscibili in quanto tali.  Gli artisti stanno giocando con gli elementi essenziali della comunicazione dando preminenza alla texture  linguistica piuttosto che all’esemplificazione dei temi. Emerge il colore in quanto tale, ma con un significativo paradosso che stimola la sua attenzione: il colore dei quadri tende a un movimento sotterraneo che il colore timbrico della musica tenta quasi di negare. E’ come se l’arte visiva aderisse a quella forma fluens di cui ci ha parlato Ruggero Pierantoni in un libro importante, Forma fluens,[5] appunto, che descrive i rapporti del segno pittorico col movimento, dalle origini ai giorni nostri.

”Il nostro sistema visivo – annota per esempio Pierantoni- nel suo complesso non riesce a fornire una valutazione ugualmente accurata della forma e del movimento di un oggetto. Esiste una sorta di soluzione intermedia, di compromesso, per cui entrambe le caratteristiche, quella geometrica e quella dinamica, non possono essere trattate simultaneamente, con lo stesso livello di precisione d’analisi. Ma vengono fornite informazioni relative all’una e all’altra condizione più o meno accurate a seconda delle caratteristiche della forma in moto e delle condizioni cinematiche con cui esso si realizza. Si può affermare in prima approssimazione che una forma ricca di dettagli viene percepita tanto meglio quanto più lento è il suo moto e che il moto viene valutato tanto più accuratamente, per esempio nel senso della sua previsione, quanto meno dettagliato e ricco di elementi formali è l’oggetto in movimento”[6].

Se analizziamo le opere di Varèse, o pezzi come: Couleurs de la cité celeste e Catalogue d’oiseaux di Olivier Messiaen, Trio d’archi, Quattro pezzi per orchestra ognuno su una singola nota e i Quartetti  d’arco n. 2, n. 3 e n. 4 di Scelsi, Atmosphère e Lontano di Ligeti,Spiegel di Cerha, Compositions no.7The TortoiseHis Dreams and His Journeys di La Monte Young, Stimmung di Stockhausen, Iris and Luna di Norgaard, String Quartet di Frisch, Melodie e Monodias e Interludios di Maiguascha, Lonely Child  e Trois airs pour un Opéra imaginaire  di Vivier, Doriud  e Thirty Dreams Ago  di Radulescu, Mortuos Plango  e Vivos Voco  di Harvey, Io di Saariaho, L’orage di Dufourt, e, ancora, le opere di Murail, Grisey, Dalbavie e Hurel che, secondo il giovane studioso inglese Julian Anderson costituirebbero la costellazione dei precorritori, dei compagni di strada e dei rappresentanti propriamente detti dei citati “spettralisti” francesi, potremmo vedere come l’”approssimarsi a una forma ricca di dettagli” abbia rallentato il processo compositivo fino a immaginarlo come una lentissima rotazione di un effervescente pannello sonoro.

Il problema in questi casi consiste nell’ipostatizzazione di un concetto senza un’adeguata verifica empirica, laddove si dovrebbe soprattutto poter distinguere. Tutti i compositori citati hanno in comune la tensione a scendere nella profondità del suono, ma non tutti condividono la medesima prospettiva temporale, non tutti tendono alla stessa condizione di stasi. Non è certo questa la sede adatta per operare delle (necessarie) distinzioni; qui si fornisce solo il quadro volutamente schematico di un’esemplificazione compositiva non a-problematica di quel passaggio del colore timbrico da ornamento a testo. Non a-problematica, nel senso che si sottolinea la necessità di non fare di tutta l’erba un fascio e soprattutto di non dimenticare che la tematica del movimento, del ritmo e della temporalità attraversa, con i suoi paradossi e le sue contraddizioni, in sottofondo la problematica timbrico-coloristica arricchendola di nuovi connotati.

Il ritmo volumetrico

L’elemento che si vuol mettere in risalto è che la svolta paradigmatica che si è operata sulla scia dell’emergenza del timbro non ha riguardato solo le connotazioni di quest’ultimo, ma ha investito il fenomeno compositivo in quanto tale, quindi anche il sistema diastematico-intervallare, la texture accordale, la dimensione ritmica. Relativamente a questo ultimo aspetto, per esempio, si è prodotta una completa riorganizzazione eterofonica dello spazio sonoro. Un critico ha potuto scrivere di un opera di Henry Cowell:

“In its overall sound the Quartet Romantic  (di Henry Cowell, N. d. A.) is quite unlike anything else in music. As with some of Ruth Crawford’s later pieces one is simply unaware of traditional values of synchrony between parts: rather, one hears only the complete heterophony of four independent lines co-existing in musical space. Given Cowell’s original intention here – to show an alchemical link between harmony and rhythm- this is rather paradoxical”. [7]

Forse il paradosso consiste nel voler cercare un “alchemical link” tra armonia e ritmo. Paradosso tuttavia produttivo e niente affatto isolato nell’ “American Experimental Music”, a partire da Charles Ives, attraverso le opere di Charles Seeger, Carl Ruggles, Ruth Crawford, Henry Cowell, e di cui un’eco decantata si avverte nelle composizioni di Elliott Carter e di altri:

“An obvious example of this ‘subtle influence’ would be Cowell’s own work as a teacher and new music entrepreneur in the 1920s and 1930s, through wich two composers as different in outlook as John J. Becker (1868-1961) and Lou Harrison (1917- ) were introduced to the disciplines of dissonant counterpoint”. [8]

Qualcuno può pensare che il riferimento al ritmo è valevole solo per la musica. Non è così: la dimensione che gli è propria fa parte anche della problematica iconologica. Anzi, forse si potrebbe dire che dal modo in cui il ritmo è stato trattato in pittura si possono trarre utili spunti per la musica. Qui si citano le ricerche di Pavel Florenskij:

“Un tempo omogeneo, che scorra cioè in modo continuo, non è in grado di rendere un ritmo. Quest’ultimo presuppone pulsazione, concentrazione e dilatazione, rallentamento e accelerazione, passi avanti e fermate. Di conseguenza i mezzi figurativi che realizzano un ritmo devono possedere una qualche articolazione fra certi loro elementi che trattengono l’attenzione e l’occhio e altri elementi intermedi che invece li conducono da un elemento a un altro. In altre parole le linee che configurano lo schema fondamentale di un’opera figurativa devono concatenarsi negli elementi di quiete e salto che si avvicendano”. [9] 

Questi elementi  di quiete e salto non sono lontani da una tecnica di stile cinematografico che “monta” la scena in movimento di  questo o quel particolare del vortice della modernità. E il fatto stesso di rimandare a una logica filmica suggerisce lo spunto che in realtà abbiamo a che fare con un ritmo a-metrico, per grandi masse da  indurre in quiete o lasciare in movimento, cioè con un ritmo volumetrico. Concettualmente, quest’aggregato intercomunicante di oggetti semplici riorganizzantesi su scala globale, ha inciso tanto sulla macro-forma quanto sulla micro-forma.

Non solo la musica, ma nessun’arte  può fare a meno del ritmo. Anzi, è forse su questo terreno che si può misurare la paradossalità dell’object ambigu (la musica che diventa Sound Art, un object ambigu sotto il profilo estetico) quando lascia sprigionare una forza sconosciuta che è il ritmo più o meno sottintesto di cui è intessuta. In questo ambito si rovescia la partita del dare e dell’avere tra musica e arti visive. Per molti (e per chi scrive) la musica è in quintessenza ritmo; coloro i quali sostengono che il pensiero compositivo sarebbe di fronte a una impasse difficilmente superabile, non hanno fatto o non hanno voluto fare i conti col ritmo e con le potenzialità creative che esso sempre racchiude. Nel momento in cui il terreno sarà pronto per una nuova sintesi tra dimensione timbrica e dimensione ritmica è probabile che si possa assistere a una nuova stagione creativa.

La rottura del paradigma lineare
L’incurvatura del tempo e dello spazio

Il testo occidentale nell’ambito delle arti del continuo (come la poesia e la musica) è storicamente connotato da temporalità e linearità. Esso riflette il codice culturale che lo ha espresso. La mente occidentale è intrisa di linearità, come ci ha ricordato il filosofo di origine ceca Vilém Flusser, in una conferenza al Kunstmuseum di Berna dell’88: “Wir sind ‘westliche Menschen’, weil unsere ‘forma mentis’ von der Linearität des alphanumerischen Codes ausgebildet wurde”. [10] 

Se non risulta agevole per una comprensione dei processi mettere tra parentesi l’ “intenzionalità” autorale, graduabile su un arco di consapevolezza che va dall’empiria alla razionalizzazione più astratta; non è neanche lecito dimenticare la specifica dimensione del macro-testo culturale – basato in questo caso sul codice occidentale – all’interno del quale il compositore situa il suo testo sonoro. Accettazione o  rifiuto, quello che emerge è una scelta culturale dello spazio sonoro utilizzato.  Laddove si parla di naturalità, bisogna sempre “leggere” storicità. Le opere sono  prodotto di una scelta culturale, non un fatto di natura. Una diversa configurazione dello spazio sonoro nella sua fisicità si è imposto tra la metà dell’Ottocento e la fine del Novecento in virtù di una crisi relativa al codice linguistico di appartenenza, che ha revocato in dubbio la stessa linearità  della musica.

“In generale, un fenomeno si dice non lineare quando, sommariamente, gli effetti cessano di essere proporzionali alle cause (…) Nel regime lineare, il sistema è di fatto la mera somma delle sottoparti; ha senso dunque analizzare il comportamento di una singola  di queste sottoparti, dato che il comportamento globale può poi subito essere dedotto semplicemente sovrapponendo le singole sottoparti. Matematicamente, questo è noto come principio di sovrapposizione degli effetti, e sta alla base del successo di gran parte dei metodi matematici per la fisica. In regime non lineare, tutto questo cessa di essere vero, ed il sistema non  è più la somma delle sottoparti ma qualcosa di più: la somma delle sottoparti più la loro mutua interazione. Dunque non ha più senso cercare di isolare sottosistemi elementari ma diventa invece cruciale spostare il fuoco sull’interazione tra tali sottosistemi. Mancando un principio di sovrapposizione, non è più possibile generare delle classi generali di soluzioni a partire da soluzioni di un singolo problema. Ogni problema va dunque risolto nella propria individualità. (…) Va poi detto che, seppur per altra via, una certa forma di generalità è comunque resa disponibile proprio dal fatto che le caratteristiche intrinseche dei singoli hanno molta meno importanza rispetto alle loro proprietà di comunicazione. E’ ragionevole attendersi perciò che sistemi anche apparentemente molto diversi, ma tuttavia caratterizzati da leggi di interazione simili, si comportino in maniera analoga. Questo è senz’altro vero ad esempio per i cicli di ‘oscillazioni e di rilassamento’ di Volterra-Lotka, che sono comuni a tanti fenomeni del tutto distinti, ma legati tra loro dal fatto di essere dotati di retroazione”. [11] 

Da cui consegue che “E’ possibile ed efficiente realizzare un sistema complesso aggregando su larga scala molti oggetti semplici”. [12] 

Inoltre “Questo aggregato di oggetti semplici, munito di leggi locali e nonlineari, è in grado di esibire fenomeni di autoorganizzazione su scala globale”. [13] 

Questi oggetti semplici si definiscono nella modellistica matematica “automi cellulari”.

Ma in arte spesso si offre il fenomeno di celati correlativi storici sotto le sembianze di rotture rivoluzionarie. In realtà per molti versi si può sostenere che questa frattalizzazione dell’esperienza è un analogo della matematizzazione dello sguardo operata dagli artisti del  Rinascimento.

“La costruzione prospettica esatta ” rinascimentale “astrae radicalmente dalla struttura dello spazio psico-fisiologico” – scrive Erwin Panofsky “non solo  il suo risultato, ma addirittura il suo fine, è di realizzare nella raffigurazione dello spazio quell’omogeneità e quell’affinità che l’Erlebnis immediato dello spazio ignora, di trasformare lo spazio psico-fisiologico in quello matematico. Essa nega dunque la differenza tra davanti e dietro, tra destra e sinistra, tra il corpo e l’elemento interposto (‘spazio libero’), per risolvere tutte le parti e i contenuti dello spazio in un unico ‘quantum continuum’; essa prescinde dal fatto che noi non vediamo con un occhio fisso, bensì con due occhi in costante movimento, e che ciò conferisce al ‘campo visivo’ una forma ‘sferoide’”.[14] 

Questo gioco di rimandi serve a far riflettere che, comunque si imposta il discorso, emerge che nell’orizzonte concettuale dell’object ambigu, colore e geometria spesso si scambiano le parti. Detto in altri termini, proprio quando ci sembra che la tematica coloristica sfoci nell’indeterminatezza più totale, proprio allora ci accorgiamo che rispuntano i coni e i cilindri di Cézanne. Quello in comune è il concetto di spazio curvo, ed è su questa base che l’Occidente ha messo ripetutamente in crisi il “codice alfanumerico” su cui si basava la sua maniera di pensare.

Luce e colore

Se in generale si può dire che i rapporti tra suoni e colori condividono uno spazio interattivo in cui è possibile muoversi, non altrettanto si può affermare dei rapporti tra la luce (o l’ombra) e il suono, all’interno del cui cosmo sembra non trovare addentellati o parallelismi. Ed è questo forse l’aspetto più intrigante. Lo ha notato giustamente il citato Brusatin:

“Se si intuiva una corrispondenza tra suono e colore, tra alfabeto dei suoni e armonia dei colori, in cui la tinta è il timbro , la brillantezza l’altezza, la saturazione l’intensità, una casella vuota restava l’insondabile tema originario del colore che non ha corrispondenza nel suono: l’ombra, se non in una lunga pausa muta”. [15] 

E’ un tema affascinante, su cui varrebbe la pena fare uno studio apposito, che potrebbe riservare non poche sorprese, oltre ad essere molto interessante da un punto di vista estetico. Laddove il colore si trasforma in qualcos’altro, in luce, lì il suono sembrerebbe apparentemente impotente a tenergli dietro. Sembrerebbe, perché se si osserva bene  la musica ha altri mezzi per esprimere questo fenomeno. Ma, in realtà, bisogna ammettere che al di là delle convergenze, esistono molte divergenze, che la tematica comune del ‘materismo’ non basta a celare.

L’arte ha questo potere di velare, di nascondere attraverso il gesto un elemento simbolico: la pittura lo conduce attraverso il gioco di luce e ombra. La musica, quando le va dietro come nel Prometeo di Skrjabin (1908), con il suo “clavier à lumière” risulta addirittura ingenua nella sua imprecisione: infatti con esso ci si riferiva a una corrispondenza coloristica e non luministica, il rosso con il do, il viola con il re bemolle-do diesis, il giallo con il re e così via. 

In pittura  è la luce che traduce la materia in simbolo. Ha scritto Emilio Tadini, a proposito della mostra di Vermeer:

“Ma che cos’è che nella pittura di Vermeer carica di valore tutto quanto, uomini e oggetti, spazi esterni e interni? E’ la luce. Una specie di consacrazione laica. Pura, semplice. Non è, questa, la luce tragica di Caravaggio, quella luce che sembra venire dagli spazi dello Spirito – dagli spazi di qualche nuovissimo Spirito dell’Ansia. E non è neanche la luce magica, avventurosa, che agisce nel subbuglio di tutte le misteriose notti di Rembrandt. La luce di Vermeer si mostra e funziona in quanto prodotto di una meccanica di illuminazione, in quanto fenomeno di una fisica elementare. Viene dalle finestre. E’ la luce del giorno. La laica luce del giorno. La luce del giorno laico. Nessuna tragedia palese, certo, nella pittura di Vermeer. Ma anche questo mondo ospita ombre, ospita l’Estraneo. In queste case, simili a miti fortezze alzate contro ogni violenza, abita, nascosta, la figura di una melanconia”. [16]

Il colore nello spazio
(Spazio figurativo, spazio sonoro)

Dopo le esperienze compositive di un Boulez o di un Berio non è più possibile negare una dimensione spaziale alla musica. In questi casi la sensibilità volumetrica – derivata da un’acuita sensibilità timbrico-coloristica – diventa architettura dello spazio sonoro, che è una caratteristica essenziale di quella che chiamiamo, appunto, Sound Art. Ci sarebbe tutto un discorso da fare al riguardo, che rimanderemo a un’altra occasione. Qui si vuol soltanto rilevare la perspicuità di un rapporto tra colore e spazialità, il cui spunto ci è offerto dalla critica d’arte, con l’addentellato di una domanda che rimanda direttamente alla musica. Seguiamo Pierre Francastel:

“Si sa, ormai, che un colore deve essere trattato non solo secondo la legge dei complementari (rispettata da secoli) ma tenendo conto del fatto che possiede in sé un significato spaziale assoluto. Il blu allontana ed il giallo avvicina. Questa scoperta ha rivoluzionato la tecnica, rompendo definitivamente le relazioni tradizionali tra disegno e colore. Questo non ha più bisogno di essere definito o completato dal tratto; ha in sé tutto il suo significato spaziale. Si può costruire uno spazio complesso giustapponendo semplicemente macchie colorate. Non è più necessario ricoprire di piccoli tocchi una trama lineare, sia pure schematica, come facevano gli impressionisti”. [17] 

E’ possibile, ci si può chiedere, che nei rapporti frequenziali si possa dare qualcosa di simile? Forse si, l’aveva già notato il filosofo Ernst Mach: i rapporti tra le note delineano uno spazio. Si solleva questa problematica per sottolineare che l’analisi comparata della visibilità con l’udibilità presenta dei vantaggi non soltanto per l’evidenza dei grandi campi tematici (la dimensione macroscopica) ma anche per l’acuirsi dello sguardo sui dettagli (il campo microscopico). Una riflessione che voglia andare veramente a fondo potrebbe portare a riconoscere dei grandi motivi di interesse retrospettivi. Dalla prospettiva dell’analisi dell’arte contemporanea si potrebbe tornare  alla  musica fiamminga: la prima ci ha messo in condizione di poter meglio capire la seconda. Il caso dello spazio torna a proposito: come delineavano lo spazio sonoro i fiamminghi? C’è da dire che il confronto tra musica e arti visive aiuta anche perché mette in condizione il musicologo di entrare in contatto con la grande letteratura critica relativa alle arti visive, dove questi temi sono stati dibattuti a fondo.

L’occhio e l’orecchio sul reale
La figura e lo specchio

Scrive Aldo Tagliapietra:

“Introducendo il suo studio su quella ‘leggenda scientifica’ che Lo Specchio  racconta, Jurgis Baltrusaitis faceva notare che ‘allegoria della visione esatta, lo specchio lo è anche del pensiero profondo e del lavoro dello spirito che esamina attentamente i dati di un problema. ‘Reflectere’ non significa forse ‘rinviare indietro’, ‘rispecchiare’ e ‘riflettere-meditare?’ Il processo mentale del rinviare per riconsiderare è indicato con termini di ottica” (…) Riflessione  e speculazione  sono i ‘nomi del pensiero’ in cui, soprattutto a partire dall’epoca moderna, si è nascosta  un’antica ‘metafora dormiente’, quella metafora dello specchio che il tramonto dell’organizzazione del sapere pre-classico ha consegnato in toto alle complesse strategie del soggetto”. [18] 

Appunto. In una certa ottica, il pensiero è stato immaginato come specchio fedele della natura. Un pensiero che si articola in parole ed immagini, con un codice preciso, la cui fedeltà e pulizia cartesiana sono garanzia di riflessione.  Ora, poniamo mente alle conseguenze che si producono quando il codice è reso rugoso dall’emergere della materia con cui è fatto. Esso non rifletterà  più un mondo esterno ad esso, ma si piegherà sul suo interno: ecco allora i bagliori dell’ambiguo che punteggiano lo speculum riflettente, rendendolo opaco e inaffidabile. La pittura non riflette più mimeticamente la realtà oggettuale, la musica declina la sua metafora dell’armonia dell’universo. Si piegano l’una sull’altra. Scoprono l’artificio di qualcosa che è al di là dello specchio, la texture di qualcosa di imprendibile. L’arte moderna vive al di là dello specchio. Frantumata la pretesa oggettività dei  nessi logici, la musica non poteva dir più nulla sull’asse “sintagmatico”, avrebbe smesso di lì a poco di funzionare come una lingua; le sarebbe restato l’asse del “paradigma”, avrebbe cominciato a funzionare come timbro. La materia si sarebbe presa la rivincita sul linguaggio. Che cos’è questo se non un capitolo del grande “manierismo” dell’arte occidentale?

“Chi cerca soprattutto la libertà, presto desidererà una libertà estrema,  – ha scritto uno storico illustre del manierismo, Gustav R. Hocke – ma a poco a poco, quanto più si scatena la sua fantasia libertaria, si struggerà di trovare l’incanto di più rigorosi, anzi fin sovrumani, inumani ordini. Questa mescolanza di focosa dismisura e di gelida riduzione è una legge fondamentale della musica manieristica (…) Con una trattazione della musica manieristica noi ci avviciniamo al centro del Labirinto, al suo creatore, al primo inventore, all’ingénieur damné, Dedalo”. [19]

La variazione

La dimensione sperimentale  della storiografia e della teoria estetica applicate all’analisi dell’opera contemporanea  si giustifica proprio per il fatto che i fenomeni di cui si occupa sono appunto variabili e molto rapidamente; non fissi, stabili, sacrali. Un critico potrebbe sostenere che sono troppo  variabili, fino al punto di smarrire il senso di quello che sono o vorrebbero essere. Variabili fino al tourbillon atmosferico, metafora peraltro non estranea alle partiture di un compositore  come Xenakis.  La temporalità, lungi dall’essere un mero accidente di qualcosa che permane, assume il peso e la funzione di una variazione. Le variazioni possono anche trasformare gli enti fino a renderli irriconoscibili; l’unico legame tra l’ente trasfigurato e il suo punto d’origine è la sua ontologicità  Che cosa ci suggerisce questo impalpabile scambio tra permanenza, temporalità, variazione? L’antinomia del principio!

“Il principio di variazione è antinomico, nel senso che non implica in sé semplicemente un mutamento, ma che questo si confronti con una ‘sostanza’ più stabile o nota, talvolta un tema, rispetto al quale avvengano le modifiche. Tuttavia bisogna sempre tener presente che questo ‘tema’ costituisce solo l’occasione, la base materiale di variazioni più o meno sostanziali, ma non spiega l’intima necessità del principio di variazione. Questa non si può far nascere dalla limitatezza del tema, o dalla monotonia delle sue ripetizioni: evitare ciò può essere uno dei fini della variazione, ma non basta l’esigenza di varietà per ottenerla, ché la variazione deve avere origine da una propria tecnica e, più a monte, da una estetica positiva della variazione. L’impressione che un tema sia limitato fa augurare che si crei un superamento del limite, ma anche un modo per arrivare a ciò: la variazione offre un modo coerente, e permette a un fenomeno apparentemente limitato e in sé concluso di mostrare le sue possibilità di essere altro da sé, anche ricorrendo esclusivamente alle sue configurazioni interne, diversamente disposte e interpretate (tecnica sfruttata tra l’altro dalla polifonia imitativa). Vista così, la variazione è qualcosa di profondamente diverso da come la spiega il sensismo borghese, come una variazione di superficie, per abbellire una sostanza tendente a consumarsi, ad annoiare il pubblico adulto. Il concetto di variazione implica la parità di importanza e di necessità di due principi contradditori, uno tendente all’unità, l’altro alla varietà: questa è quella che Sachs chiama la ‘two-sideness” della variazione, che vi siamo ‘membri spiritualmente simili ma di fatto dissimili’”. [20]

Non vorremmo condividere l’errore, tipico di questa fin de siècle,  di identificare la rivoluzione compositiva con le modulazioni di frequenza e di ampiezza emerse da calcoli a freddo, con sontuose apparecchiature, in comodi istituti di ricerca, da formidabili apparecchi di calcolo. Esistono anche altre tensioni, altre modulazioni che non sono riassumibili e riassorbibili nello spettro verticale del suono.  Esiste anche una orizzontalità sonora che produce la domanda di origine schoenberghiana, richiamata da Massimo Cacciari in una conversazione con Luigi Nono e nella quale sembra di sentire la domanda di Leibniz (Perché si dà un qualcosa piuttosto che il nulla?): perché dopo un suono un altro suono?

“Si potrebbe allora dire che il problema da cui scatta una nuova situazione musicale ha appunto questa forma: Perché dopo un suono un altro suono?  Questo ‘perché’ ha la forza di revocare radicalmente in dubbio tutti i ‘perché?’ tradizionali che trovano pace in definizioni o in dichiarazioni programmatiche. Questa domanda, invece, rimane, dato che in essa ogni suono si raccoglie come cellula compiuta, così come esce dal silenzio e nel silenzio subito ritorna… Webern per me, è questa costante possibilità che tutto si dia in ogni punto, ma che proprio per ciò tutto in ogni punto possa davvero finire. Altro che letture meramente tecnico-seriali di Webern…! Ogni suono  carico della responsabilità di precedere immediatamente il Nulla; e ogni nuovo suono carico della meraviglia del primo, come il primo stupito… Il terzo atto del Tristano  dice un “Ascolta!” puro, assoluto, svincolato da ogni indicazione appaesante circa il ‘che cosa’”. [21] 

La “profondità del suono”  rimanda a una profondità della musica come “domanda” priva in un certo senso di risposta, come esperienza di un ascolto senza il “che cosa”, esperienza dell’andare “a destra o sinistra, avanti o indietro, sopra o sotto”. “Si deve andare avanti senza chiedere che cosa ci sia davanti o dietro” come dice Gabriele all’inizio della Scala di Giacobbe  citando il Talmud.

Multimedialità dell’object ambigu

Una questione di bruciante attualità è in che relazione si ponga la fenomenologia sonora della musica del Novecento storico e contemporaneo con il “senso comune” dell’ascolto. Anche in fisica i risultati della ricerca si allontanano sempre più dagli standards della percezione e del  “senso comune”.  La “fisica ingenua”, come la definisce lo piscologo  Paolo Bozzi, [22] è in contraddizione con le leggi del movimento di Galileo. Serve questo a produrre un qualche giudizio? Certamente non sulla fisica. E sulla musica? Per essere una questione controversa, lo è certamente.

Tutta la musica post-tonale sembra fare a pugni col “senso comune”, fino agli esiti sperimentalistici più estremi. Ma sono proprio questi esiti sperimentalistici che talvolta rivelano contraddizioni produttive a chi non voglia accontentarsi di una vita acquietata all’interno del codice di appartenenza.  Il percorso della musica contemporanea, nelle sue varie sfaccettature  ha infatti liberato da antichi involucri diversi itinerari di pensiero, nuove domande, rinnovate  esperienze, a testimonianza di una permanente vitalità delle stessa musica. Potrebbe sembrare un’affermazione azzardata, questa della vitalità della musica, al cospetto di vulgate dichiarazioni di crisi e di auto-dissoluzione. Essa va «interpretata», nel senso di delineare un orizzonte concettuale che non voglia trascendere affatto dall’empiria del suo farsi, dalla contingenza del suo darsi qui ed ora e  all’interno del quale essa assume un qualche significato in rapporto all’evoluzione del pensiero creativo. Occorre essere positivamente disposti a un andamento privo in un certo senso di concitazioni speculative. E’ interessante studiare l’arte  sul terreno dei problemi cui la stessa musica cerca di dare una risposta, a partire, fenomenologicamente, «zu den Sachen selbst», dalle cose stesse. Non si può certo pretendere  una completezza riferita a un secolo che è ancora in corso, ma forse è auspicabile uno scandaglio in profondità nelle ragioni che ha sollevato la musica di questo secolo, in tutte  le sue componenti; individuare la “struttura che connette” in un ampio ventaglio di possibilità le esperienze e le sensibilità di molti; capire come l’ascolto stesso è uscito trasformato da ondate cicliche prodottesi all’interno di una mutazione globale di paradigma.

Torniamo  alla galleria dove si produce l’evento. Questo evento rimanda ad altri eventi, forse non con lo stesso segno. In qualche modo i quadri alle pareti non si lasciano vivere come  luoghi deputati dell’arte. E’certo che l’ascolto musicale non pretende l’esclusiva e di conseguenza si svolge più come la colonna sonora di un clip, che come luogo centrale della rappresentazione sonora, quello cui legittimamente ambisce la musica in una sala da concerto .  Tutto ciò fa venire in mente altre situazioni, più immediate rispetto al tempo in cui viviamo, più vicine alla logica  di un Cd-rom che a quella di una  sala di un museo. Ma non c’è da scandalizzarsi più di tanto; o meglio, ci sarebbe da scandalizzarsi se l’operazione non fosse marcata da un deciso carattere sperimentale, tesa più a conquistare un  nuovo pubblico che a compiacersi di se stessa. Ha scritto Remo Bodei:

“Tra gli effetti della propagazione del bello nel quotidiano vi è l’abbassamento della sua tradizionale pretesa alla durata, al desiderio di rappresentare qualcosa ‘più perenne del bronzo’. Sorgono così opere d’arte dichiaratamente effimere, anche in ragione della voluta deperibilità o instabilità dei loro supporti materiali, come in certe sculture fatte di schiuma e sapone oppure di sabbia esposta al vento. Inutile deprecare tali tendenze, che sottolineano, tra l’altro, aspetti caratteristici della sensibilità contemporanea, tesa ad accentuare la natura di object ambigu dell’opera d’arte in un mondo in cui l’esperienza si serializza o si riscrive velocemente, incentrandosi spesso su singoli ‘eventi’ discontinui e virtualmente destoricizzati, che subiscono trasformazioni infinite, analoghe a quelle di cui è passibile un testo elaborato al computer ”. [23]

Non bisogna trascurare l’importanza centrale che ha avuto l’”esperienza della macchina” in momenti nodali del tardo ventesimo secolo a partire dalla “musique concréte” di Schaffer, dalla “Elektronische Musik” dello studio di Colonia fino ad arrivare alle ricerche di musique-acoustique dell’Ircam. Oggi si profila il fenomeno – che nasce all’interno di grandi università americane – di una musica prodotta da strumenti “virtuali”. Alcune esperienze di Tod Machover sono rivelative in tal senso. Sono ricerche che vanno seguite con estrema attenzione e che forse aprono nuove possibilità all’interno del rapporto uomo-macchina.

Ma c’è da rilevare un paradosso davvero importante. Nel momento in cui la macchina ci mette in condizione di sostituire la natura, torniamo ad imitarla. Davanti al computer decliniamo il nostro sguardo che per un momento si è alzato sul nulla, allineandolo a una ornamentalità certo esteticamente gradevole ma non screziata  dai perché di cui si nutre. Ma proprio dall’estrema contaminazione talvolta risorge il volto gorgonico dell’arte, sia pure tra mille contraddizioni. Si spera di essere stati sufficientemente chiari nello svolgimento di questo discorso e di esserlo ancora di più nelle conclusioni. L’arte contemporanea  vive scavando nelle contraddizioni della propria epoca, anche in quesi casi che risulta più assimilata o assimilabile. L’opera d’arte non è la televisione. “Prendiamo uno qualsiasi dei suoi telegiornali – ha avuto modo di dire Giulio Ferroni- Che cosa vediamo? Una serie rapida e ininterrotta di immagini diversissime fra loro che si inseguono e che si accavallano: tante finestre sull’insensatezza del mondo. Che cosa cercano quelle immagini? Un continuo effetto di shock. Tutto è concentrato al fine di scioccarci. Come in uno spot pubblicitario. E’ così che grazie alla televisione anche la realtà è divenuta irreale”. [24] 

Irreale e caotica. Seguiamo il ragionamento di uno studioso d’arte:

“La standardizzazione delle condizioni di vita da un lato e la circolazione vertiginosa delle immagini dall’altro (…) ha aumentato enormemente in pochi anni il numero e la velocità di flusso degli stimoli visivi, con un conseguente sovraccarico (prossimo alla saturazione?) del sistema di presenze e di attese e l’evidente usura delle capacità di attenzione del ricevitore (…) E’ come se l’affollamento dei segnali costituisse una muraglia di cui ogni componente della società di massa in cui viviamo non riuscisse a distinguere le singole pietre. Molta della propensione degli artisti moderni per le grandi dimensioni si spiega così, ma anche e soprattutto si spiega così la ricerca, da parte degli esperti di pubblicità, di colori e forme retinicamente provocanti o addirittura dirompenti”. [25] 

Il punto è questo. Qui c’è il nodo di tutte le possibili contraddizioni. L’arte più consapevolmente critica – lungi dall’assecondare la pubblicità – cerca di cambiare il segno di questo shock irreale-caotico. Essa conserva un suo volto rugoso, anche laddove sembra più degradata. Il problema è quello di amplificarne il segnale, viverla e pensarla a sua volta in maniera creativa. Ma c’è qualcuno disposto a farlo? C’è qualcuno in grado di guardare al di là del mondo della pubblicità?

Antonio De Lisa

Tutti i diritti riservati

Note

[1]“Civiltà dell’immagine e ruolo dell’ascolto”, tavola rotonda con A. De Lisa, P. Petazzi, J. Noller, M. Messinis, Biennale di Venezia, luglio 1995.

[2] M. Brusatin, Storia dei colori, Torino 1983, p. 106.

[3] T. Murail, “Scelsi de-compositore”, in P. A. Castanet – N. Cisternino (a cura di) Giacinto Scelsi. Viaggio al centro del suono, La Spezia 1993.

[4] M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del novecento, Milano 1986, p. 208.

[5] R. Pierantoni, Forma fluens, Torino 1986.

[6] Ibidem., pag. 135-136.

[7] D. Nicholls, American Experimental Music 1890-1940, Cambridge 1990, p. 148.

[8] ibidem, p. 96

[9] P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Milano 1993, p. 162.

[10] V. Flusser, Krise der Linearität, Bern 1992.

[11] S. Succi, Automi cellulari. Una nuova frontiera del calcolo scentifico, Milano, 1991, pp. 45-48.

[12] Ibidem, p. 48.

[13] Ibidem, p. 48.

[14] E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, Milano 1987, p. 40.

[15] M. Brusatin, op. cit., p. 107.

[16] E. Tadini, “Nelle stanze di Vermeer alla luce del giorno”, in Corriere della Sera, 1 marzo 1996.

[17] P. Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al Cubismo, Torino 1957, p. 141.

[18] A. Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica, Milano 1991, p. 172.

[19] G. R. Hocke, Il manierismo nella letteratura. Alchimia verbale e arte combinatoria esoterica. Contributo a una storia comparata della letteratura europea, Milano 1975, pp. 223-224.

[20] G. Damiani, “La necessità della variazione nel pensiero viennese progressista”, in Studi musicali, Anno XXII, 1993, n. 2, pp. 447-465.

[21] “Verso Prometeo”. Conversazione tra Luigi Nono e Massimo Cacciari raccolta da Michele Bertaggia, in M. Cacciari (a cura di), Verso Prometeo,  Milano  1984.

[22] P. Bozzi, Fisica ingenua. Oscillazioni, piani inclinati e altre storie: studi di psicologia della percezione, Milano 1990.

[23] R. Bodei, Le forme del bello, Bologna 1995, p. 75.

[24] Colloquio con G. Ferroni di M. Fortunato, “Risparmiate carta, scrivete meno libri”, in L’Espresso, 1 marzo 1996.



Categorie:Y04- Musica e arti visive

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