Poesia e musica: un itinerario
di Antonio De Lisa
Poesia e musica. Sembrerebbe a tutta vista trattarsi di una storia comune. Il nome stesso delle diverse forme poetiche indica la connessione tra queste due forme espressive : sonetto (dal latino “sonus”= suono , attraverso il provenzale “ sonet ” diminutivo di “ son ”= poesia per musica), canzone (dal vocabolo latino cantio – cantionis = canto, mutuato attraverso il provenzale cansò = composizione di versi e musica) , canzonetta, ballata, rondo’ o rondello (che in antico indicava una breve ballata per musica con ripetizione del primo verso alla fine di ogni strofa), canto, ode , inno. Ma se è vero che sono nate insieme, insieme non sono restate a lungo, specie nella cultura italiana. In questo breve saggio non si avrà la pretesa di illuminarne tutti i rapporti; ci limiteremo a segnalarne i momenti di contatto più intensi e produttivi sia in un verso che nell’altro, ma anche i reciproci travisamenti, per non dire veri e propri “tradimenti”.
L’universo poetico-musicale dei trovatori
In ambito trobadorico europea, a partire dall’esempio provenzale, assistiamo a una fertile collaborazione tra testo e musica, talvolta nel caso della stessa persona. Vediamone subito due esempi:
Jaufré Rudel (1125-1148) – Lanquan li jorn
Prima strofa
M’es bels dous chans d’auzelhs de lonh,
E quan mi suy partitz de lay,
Remembra·m d’un’ amor de lonh.
Vau de talan embroncx e clis,
Si que chans ni flor d’albespis
No·m platz plus que l’iverns gelatz.
mi è caro il dolce canto degli uccelli, di lontano,
e da quando mi son dipartito di là
mi ricordo d’un amore di lontano.
Vado con animo afflitto e triste,
così che il canto e il fior di biancospino
non mi piacciono più del gelido inverno.
sint myn sundich auge ersocht
daz liebe lant und auch die erde
dem man aller eren gicht.
Nu ist geschen als ich je bat,
ích byn kommen an die stat,
da got menslîchen trat.
il mio sguardo peccatore osserva
l’amato paese e la terra
cui si tributa grande onore.
E’ accaduto ciò che da sempre
invocavo:
sono giunto nella città
in cui Dio camminò da uomo.
Il Medioevo italiano
“Sui rapporti fra poesia volgare e musica nel Medioevo esiste un’opinione vulgata, quella che più spesso è riportata da manuali e trattazioni generali: la lirica italiana si distingue per un precocissimo divorzio, già delineato per i poeti della scuola siciliana” (Zuliani 2009: p.83). Ai poeti della scuola siciliana – scrive Gianfranco Contini – “si deve l’iniziativa, tanto vivace rispetto ai provenzali classici, di avere in tutto disgiunto la poesia dalla musica […]. Con questo instaurano il divorzio così italiano (onde poi europeo) di alta poesia e musica che la collaborazione d’un qualche ‘magister Casella’ (‘sonum dedit‘) a libretti più che mai autonomi sopraggiunge semmai prerentoriamente a sancire” (Contini 1970: p.178). Quella che è stata definita la lingua più musicale del mondo, l’italiano, non canta? No, il problema non è questo. E’ un problema di forme e di ritmi. Il ritmo poetico non coincide con quello musicale: è troppo limitante. Ma la musica vocale non può fare a meno delle parole. E allora si arriva a soluzioni di compromesso. Questa è la storia che narreremo.
Il paradigma medievale
Lo studioso Luca Zuliani discute a lungo quello che lui chiama il “Paradigma medievale”. Che cos’è questo paradigma? Si tratta della scansione declamata per distici della poesia non cantata due-trecentesca:
Amor co la man destra il lato manco
m’aperse, e piantòvi entro in mezzo ‘l core
—
un lauro verde sì che di colore
ogni smeraldo avria ben vinto et stanco.
La quartina di Petrarca indicherebbe il paradigma di fondo della lirica medievale: questa struttura ritmica a fini espressivi mal si sarebbe adattata alla musica, che attendeva altro dalla poesia, cioè un “rompimento de’ versi” capace di rendere più flessuoso e imprevedibile il ritmo. “Ai piani alti della lirica rinascimentale questo modello fu progressivamente eroso, sulla base di una scansione più grave dei versi”, a partire dalle liriche di Giovanni Della casa, nelle quali la sintassi prende il sopravvento sulla struttura ritmica propria del metro:
O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
Notte placido figlio, o de’ mortali
egri conforto, oblio dolce de’ mali
sì gravi ond’è la vita aspra e noiosa.
(Casa, 54, 1-4)
“Fu in primo luogo Torquato Tasso ad analizzarne le implicazioni rispetto al modello tradizionale” (Zuliani 2009: p.66). E non a caso i versi del Tasso saranno tra i più sfruttati tra i più sfruttati della musica rinascimentale. In un bel lavoro di analisi Stefano La Via esamina lo stesso sonetto del Casa, Al sonno, insieme con un madrigale da esso tratto, e fa notare che esso è fra i “primissimi esempi di questa sorta di ‘prosa poetica’”, dove la sintassi provoca una segmentazione differente rispetto a quella data dal canto (La Via 2006:p.88. 104 e passim).
Amor melanconico e madrigale polifonico
Dice il poeta Franco Fortini, rispondendo a un’intervista: “Avete mai sentito la grande musica del Cinquecento? E’ una musica straordinaria, ma le parole non si capiscono: ci sono magari quattro voci sovrapposte, tutto è ridotto a musica. Le parole non hanno importanza, anche se cantano testi bellissimi. Quindi o prevale la musica o prevale il testo.”
Il madrigale rinascimentale – che ha ormai imparato la lezione del “rompimento de’ versi” – si sviluppa, a cominciare dal 1530 circa, dall’incontro fra il repertorio italiano della frottola, di impostazione armonico-accordale, con prevalenza della voce superiore, e la lezione contrappuntistica dei compositori fiamminghi. La struttura strofica della frottola si trasforma in un organismo musicale aperto, che si modella, momento per momento, sul contenuto sentimentale e immaginativo del testo. Quest’ultimo, a sua volta, abbandona il tono popolaresco e assume quello più raffinato della lirica illustre, sul modello di Petrarca. Ma andrà anche oltre. La complessità polifonica richiede una grande libertà metrica. Nel Rinascimento, il madrigale ricerca un rapporto sempre più stretto, penetrante e incisivo fra parola e musica: se quest’ultima non rinuncia, nei primi esempi (di C. Festa, P. Verdelot, J. Arcadelt), alla ricerca di un’autonoma armonia architettonica, con A. Willaert, C. de Rore, P. de Monte, Orlando di Lasso essa tende a illustrare le più riposte sfumature del testo attraverso l’uso del cromatismo, del contrappunto, dell’armonia, del timbro. Mentre L. Marenzio, nelle ultime opere, e C. Gesualdo portano la poetica del madrigale cinquecentesco a una sorta di lucido delirio manieristico, C. Monteverdi avvia la forma verso esiti completamente nuovi, attraverso l’uso dello stile concertato per voci e strumenti, della monodia e infine, come nel Combattimento di Tancredi e Clorinda, con l’ausilio della dimensione scenica (quest’ultima sottintesa nell’interessante esperienza del madrigale dialogico, di tono popolaresco, coltivato da O. Vecchi, G. Croce, A. Banchieri).
Il madrigale toccherà così i più alti vertici estetici della sua storia, ma concluderà anche (intorno alla metà del XVII secolo) l’arco del suo sviluppo. Certe sue caratteristiche (a cominciare dallo strettissimo rapporto fra dimensione verbale e dimensione musicale) passeranno in altre forme e, in particolare, in quella della cantata da camera.
Vediamo tre esempi, di Orlando di Lasso su un testo di Francesco Petrarca, Claudio Monteverdi su un testo di Torquato Tasso e infine di Carlo Gesualdo a Venosa.
Orlando di Lasso, Solo e pensoso (esecuzione: Concerto Italiano, Rinaldo Alessandrini)
Solo e pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman la rena stampi.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti;
perchè negli atti d’allegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avvampi:
sì ch’io mi credo omai che monti e piagge
e fiumi e selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io con lui.
Francesco Petrarca
Claudio Monteverdi, Piagn’e sospira, a 5 voci. Dal IV Libro di Madrigali (1603)
Piagn e sospira; e quand i caldi raggi
fuggon la greggia a la dolcombra assise:
ne la scorza de pini o pur de faggi
segnò l’amato nome in mille guise;
e de la sua fortuna i gravi oltraggi
e i vari casi in dura scorza incise;
e in rileggendo poi le proprie note
spargea di pianto le vermiglie gote.
(Torquato Tasso)
Carlo Gesualdo da Venosa, principe di Venosa (Napoli circa 1560-1613) si formò alla scuola di diversi maestri napoletani che frequentavano la casa del padre (forse P. Nenna, G. L. Primavera o G. de Macque). Con il trasferimento alla corte di Ferrara Gesualdo entrò nell’accademia musicale più aristocratica ed esclusiva del Rinascimento, dove operavano T. Tasso, G. B. Guarini, L. Luzzaschi e G. de Wert. Scrisse 6 libri di madrigali a 5 voci (i primi quattro pubblicati a Ferrara tra il 1594 e il 1596, gli ultimi due a Gesualdo, vicino a Napoli, nel 1611), 2 libri di mottetti e uno di responsori, più alcuni madrigali a 6 voci, pubblicati nel 1626 da M. Efrem, e le canzonette a 5 voci che Nenna incluse nel suo Ottavo Libro di Madrigali (1628).
Ciò che caratterizza i madrigali di Gesualdo è un atteggiamento compositivo audace e insofferente di costrizioni, intessuto di salti melodici dissonanti e di successioni accordali audaci e imprevedibili, ai quali il compositore affida il compito di svelare l’ineffabilità del dolore, della speranza o della gioia. Lo stile vocale si discosta tanto dall’esperienza precedente di L. Marenzio, quanto dal suo contemporaneo C. Monteverdi.
E’ noto che, diversamente dalle sue raccolte precedenti, non si sia potuto rintracciare neppure un autore noto delle poesie che Gesualdo musica nel suo sesto libro, pubblicato nel 1611 da Carlino nella stamperia del castello di Gesualdo in Irpinia e ristampato da Simone Molinaro a Genova in partitura completa nel 1613 [Cecchi 1987: p.63]. Non voleva stare stretto, aveva bisogno di un’assoluta libertà.
Moro, lasso, al mio duolo
L’Ode-canzonetta di Gabriello Chiabrera: la poesia che va verso la musica
Gabriello Chiabrera e il classicismo barocco – La produzione letteraria di Gabriello Chiabrera (1552-1638), nato a Savona, comprende quasi tutti i generi. Scrisse poemi epici (Gotiade, 1582; Amedeide, 1590; Il foresto, 1653, postumo), poemetti didascalici sacri e profani (La disfida di Golia, 1598; Il diluvio, 1598), tragedie, prose morali e numerose raccolte poetiche, i cui testi erano spesso destinati alla musica (Canzoni eroiche, sacre e morali, 1586-88; Sonetti, 1605; Canzonette, 1606). Cosimo de’ Medici gli concesse un vitalizio come ricompensa per la composizione della favola teatrale Il rapimento di Cefalo (1600) musicata da G. Caccini. Chiabrera è stato sempre inteso come una proposta alternativa al concettismo di Marino. Il suo sperimentalismo tematico (basato sulla ricerca di soggetti tratti dai classici greco-ellenistici e dalla poesia francese cinquecentesca, soprattutto Ronsard) o prettamente metrico-linguistico (incentrato sul recupero di generi strofici inusuali tratti da Anacreonte o da Pindaro, sebbene Chiabrera non conoscesse il greco) gli consentì una musicalità nuovissima, chiara e leggera. Dalle sue “canzonette” prenderà l’avvio tanta poesia settecentesca votata al “grazioso”.
Dalla canzonetta all’aria del melodramma – In origine la canzonetta possedeva la stessa struttura metrica della canzone, ma era formata da versi brevi (ottonari e settenari), oppure era di argomento poeticamente meno elevato o di tono popolaresco. Fu molto usata dai poeti della ” Scuola siciliana “. Scomparve per cedere il campo alla “ballata ” e al madrigale “. Dal Trecento al Seicento, ma specialmente nel Quattrocento, col nome di canzonetta s’intendevano ballate, madrigali, rispetti, strambotti, barzellette, villanelle, napoletane e villotte. Famose quelle di Leonardo Giustiniani (1388-1446): Ogni notte per convegno; Rezina del cor mio, ecc. Riapparve, ma con forma del tutto diversa, verso la fine del secolo XVI, per opera del Chiabrera, che le diede movenze piú agili e melodiche collegando i versi (per lo piú brevi) nelle guise piú diverse ed estendendo la facoltà del rimare, già quasi esclusiva delle parole piane, anche alle parole tronche.
Fu il Chiabrera che nel Seicento rinnovò metricamente la canzonetta, usando strofe di sei endecasillabi e settenari, o sei ottonari e quaternari, o sei settenari e quinari, di otto settenari sdruccioli e tronchi alternati, di nove settenari piani, ecc., adatte a essere musicate. Chiabrera subiva vari influssi: un po’ dallo studio dei modelli greci (Anacreonte), un po’ dagli esempi che gli venivano dalla Francia (Pierre Ronsard e gli altri poeti della cosidetta ” Pleiade ” cinquecentesca), e piú ancora per conformarla alle esigenze della musica, che proprio allora stava subendo una radicale trasformazione. Questo tipo di canzonetta fu detta melica ed ebbe una variante nella canzonetta anacreontica (a imitazione delle odi del poeta greco Anacreonte). Nel Settecento, la canzonetta divenne il genere preferito dai poeti dell’Arcadia (Rolli, Savioli, Vittorelli) e specialmente dal Metastasio che ne produsse dal 1719 al 1749 (La primavera, L’estate, La palinodia, La libertà, La partenza) e dal siciliano Meli. Infine lo stesso Parini scrisse alcune canzonette (Il brindisi, Le nozze) dove appare malizioso e galante. Canzonette madrigali scrisse anche Francesco de Lemene (1634-1704) e, fra i nostri contemporanei, fu autore di canzonette Ugo Betti. In Francia scrissero composizioni molto simili alla nostra canzonetta Ronsard e alcuni poeti della Pléiade; da notare che il Chiabrera giunse a creare le sue canzonette rifacendosi alla tradizione madrigalesca del Cinquecento e all’ellenismo riscoperto dai Francesi (Ronsard e i sette della Pléiade). In Germania coltivarono questo genere i cosiddetti “anacreontici” (Friedrich von Hagedorn, Johann P. Uz, Johann N. Götz, Johann W. L. Gleim, lo svizzero Salomon Gessner e in qualche raro esempio perfino Goethe).
In musica si trattava di una breve composizione polifonica di carattere semplice e leggero, che si affiancava come genere popolareggiante alla fioritura aulica del madrigale cinquecentesco. È affine alle canzonette villanesche, alla villanella, alle composizioni alla madrigalesca, termini che designano un simile genere di composizione, diffuso nella seconda metà del sec. XVI. Il termine canzonetta fu usato da O. Vecchi, C. Monteverdi, e comparve intorno al 1580; ebbe grande diffusione presso i madrigalisti inglesi. Nel sec. XVIII si ritrova usato in Inghilterra per indicare una breve composizione di carattere leggero. Di questo tipo ne scrisse Haydn.
La canzonetta poetica, rinverdita dal Chiabrera, fece registrare un rapido successo: non solo divenne il metro preferito della lirica lieve, amatoria e conviviale, ma anche entrò a far parte del melodramma sotto il nome di ” aria” o ” arietta”. L'”aria” si potrebbe anche considerare una canzonetta accorciata. Fu perciò l’inseparabile compagna della musica per almeno due secoli, il XVII e il XVIII: non solo della musica melodrammatica, ma anche di quella che oggi si dice ” vocale ” o ” da camera “, la quale, dice il Carducci, le conferí ” un fare tra disinvolto, sentimentale e monello “, tutto soffuso d’una fluida musicalità, e ne fece la voce e l’interprete della ” sensiblerie” arcadica e settecentesca. Ebbe allora come suoi cultori i poeti dell’Arcadia, con a capo il Metastasio e il Rolli; si spense a mezzo il secolo XIX col Savioli e col Vittorelli » (C. Culcasi). Al Carducci piacque riprenderne il metro, quello del Chiabrera, nella poesia Il poeta (o « Congedo »).
L’Aria operistica
“Con l’Aria spuntano le lacrime” dicevano una volta i loggionisti più incalliti, quelli che facevano la fila per assistere all’opera. Con questo nome si intende un brano, quasi sempre per voce solista, articolato in strofe o sezioni. La musica si rinserra nelle “forme chiuse”. L’Aria si contrappone al recitativo e rappresenta, sin dalle origini, un momento in cui la forma musicale, con le sue simmetrie e regole interne, prende il sopravvento sull’azione e sul dialogo. Di conseguenza, essa coincide normalmente con un momento drammaturgicamente statico, se non addirittura – specie nel primo Ottocento italiano – con un momento di sospensione del tempo durante il quale lo spettatore ha accesso all’intimo sentimento del personaggio. Altrettanto statico è l’impianto tonale. Non mancano tuttavia, specie nel genere buffo, le cosiddette arie d’azione.
Nel melodramma italiano delle origini l’aria può essere costituita da poche battute a struttura strofica, che interrompano il caratteristico recitar cantando. In seguito, nel corso del XVII secolo si affermò la forma bipartita A-A’ (dove A’ costituisce una ripetizione variata) o A-B. La forma dell’aria con ritornello (detto anche intercalare), nella quale l’incipit era ripreso alla fine, si sviluppò presto nell’aria con da capo a schema tripartito A-B-A’, che trionfò nell’opera seria del primo Settecento. L’aria col da capo si basa su due strofe di versi, la prima delle quali ripetuta alla fine dell’aria.
L’opera buffa e il dramma giocoso introdussero modelli più liberi, a struttura polistrofica. Verso la fine del Settecento si affermò un modello di aria in due movimenti contrastanti che nell’Ottocento, specie con Gioachino Rossini, portò alla frammentazione dell’aria in due sezioni – denominate rispettivamente cantabile e cabaletta – separate da un tempo di mezzo: il cantabile era svolto in tempo moderato, la cabaletta per lo più in tempo mosso.
Specie a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento la forma dell’aria perde la sua identità formale, e nell’accezione corrente il termine viene piuttosto a designare un esteso passaggio per voce solista concluso ad effetto (e auspicabilmente seguito da un applauso), confondendosi inoltre con la forma della romanza.
Tra le varie tipologie di Aria possiamo ricordare: Aria di sortita: aria intonata quando il cantante entra in scena (e quindi esce dalle quinte), nota anche come cavatina. Aria di bravura: aria in tempo allegro, volta a valorizzare le doti di agilità del cantante e solitamente utilizzata per esprimere rabbia, vendetta e passione. Aria di mezzo carattere: aria in tempo moderato, per esprimere tenerezza, amore e dolore. Aria di portamento: aria in tempo lento, nella quale è fondamentale come il cantante porta la voce, ovvero come sostiene il suono. Aria del sonno: aria con la quale un personaggio ne addormenta un altro. Aria in catene: aria intonata da un personaggio ingiustamente incarcerato. Aria di sorbetto: aria affidata alle seconde parti, che interpretano personaggi minori, durante la quale il pubblico si dedicava talvolta a mangiare un sorbetto. Aria di baule: cavallo di battaglia di cantanti, che la eseguivano anche all’interno di altre opere. Aria di caccia: aria nella quale il corno accompagna il cantante. Aria di guerra: aria nella quale la tromba accompagna il cantante.
Esempi di Arie celebri:
Oblivion soave da L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi (1642)
Lascia ch’io pianga dal Rinaldo di Georg Friedrich Händel (1711)
Che farò senza Euridice? dall’Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck (1762)
Madamina, il catalogo è questo dal Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart (1787)
Una voce poco fa dal Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini (1816)
Casta Diva dalla Norma di Vincenzo Bellini (1831)
Il balen del suo sorriso dal Trovatore di Giuseppe Verdi (1853)
Tu che le vanità dal Don Carlos di Giuseppe Verdi (1867)
In questa reggia dalla Turandot di Giacomo Puccini (1924)
Vediamo l’esempio di Da Ponte-Mozart: Madamina, il catalogo è questo dal Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart (1787)
LEPORELLO
Madamina, il catalogo è questo
Delle belle che amò il padron mio,
Un catalogo egli è che ho fatt’io,
Osservate, leggete con me.
In Italia seicento e quaranta,
In Lamagna duecento e trent’una,
Cento in Francia, in Turchia novant’una,
Ma in Ispagna son già mille e tre.
V’ha fra queste contadine,
Cameriere, cittadine,
V’han contesse, baronesse,
Marchesane, principesse,
E v’han donne d’ogni grado,
D’ogni forma, d’ogni età.
Nella bionda egli ha l’usanza
Di lodar la gentilezza,
Nella bruna la costanza,
Nella bianca la dolcezza.
Vuol d’inverno la grassotta,
Vuol d’estate la magrotta;
E la grande maestosa,
La piccina è ognor vezzosa.
Delle vecchie fa conquista
Pel piacer di porle in lista;
Ma passion predominante
È la giovin principiante.
Non si picca se sia ricca,
Se sia brutta, se sia bella:
Purché porti la gonnella,
Voi sapete quel che fa.
Ora vediamo un altro esempio: Casta Diva dalla Norma di Vincenzo Bellini (1831)
Itinerari novecenteschi
Dai suoni della poesia alla poesia dei suoni: l’uso del testo nella musica contemporanea – La musica contemporanea intrattiene con la poesia un rapporto simile a quello dei madrigalisti del Rinascimento. Non interessa far sentire le parole, ma giocare foneticamente con i singoli suoni delle parole. Quando il gioco è condotto di comune accordo i risultati sono alti, come nel caso delle musiche di Luciano Berio su testi di Edoardo Sanguineti. Ma l’analisi richiede un intervento supplementare che qui non possiamo svolgere. Si tratta allora di deviare lo sguardo, verso la canzone d’autore del secondo Novecento. Qualcuno potrà dire che non si tratta più di poesia e ha perfettamente ragione. Nessuno è riuscito a trovare un termine soddisfacente per indicare i testi per musica che i cantautori si scrivono per musicarli. E così li fisseremo lessicalmente anche noi: testi per musica.
Testi per musica e canzoni moderne – Forme chiuse-forme aperte. Questo è il solito dilemma. Gran parte della musica è scritta in forme chiuse, ma gli esempi che sfuggono a questa costrizione rimettono in gioco la vitalità del rapporto tra poesia e musica. Torniamo a occuparci delle forme chiuse, che si esprimono nella forma-canzone. Questa designa la composizione base della musica popolare, di durata intorno ai 3-4 minuti, caratterizzata da strofe e ritornello che si alternano periodicamente. Solitamente la struttura delle canzoni pop è la seguente: Introduzione, Strofa, Ritornello, Strofa, Ritornello, Bridge o Ponte (vocale o strumentale), Ritornello.
Ci sono anche altri modi, come questo: Introduzione, Strofa, Strofa identica alla prima ma con qualche variazione nella melodia e/o nel testo, Ritornello, Assolo, Ritornello e Conclusione (schema tipico usato ad esempio da gruppi come Pink Floyd – “Learning to Fly” ne è un esempio) che rende meno prevedibile l’ascolto, fornisce sorprese e ravviva l’ascolto. Un altro modo, meno diffuso ma altrettanto efficace, è: Introduzione, Strofa, Ritornello implicito, Strofa (con variazione rispetto alla prima strofa), Ritornello implicito, Ritornello, Assolo (che può seguire o meno la melodia della Strofa), Ritornello, Conclusione.
Normalmente nella musica leggera si adotta questo schema: Introduzione: 2 o più misure – Strofa: 8-12 misure – Ritornello: 8-12 misure – Ritornello implicito: 4 misure – Solo: 8 misure – Conclusione: 1-2 misure.
Si tratta comunque di una campionatura statistica, seguita dalla maggioranza degli autori, che presenta eccezioni ed estroversioni di vario genere.
Il testo è in genere per rime. A ciascuna riga di testo vengono fatte corrispondere 4 misure. Pertanto una strofa od un ritornello sono associati e due righe, tipicamente (ma non sempre e non necessariamente) in rima. Nonostante la presenza delle rime, la canzone moderna si caratterizza per un’accentuata irregolarità metrica, se paragonata alla lirica di tradizione colta, ma sopravvivono in alcuni casi esempi classici. Due canzoni moderne in endacasillabi sono, per fare solo un esempio: Canzone di Marinella di Fabrizio de André (con primo e ultimo verso ipermetro) e Eskimo di Francesco Guccini che, “dopo un inizio irregolare si assesta su quartine di endecasillabi molto corretti, anche se monotoni nel ritmo; in questo caso pare proprio che sia stata la melodia a resuscitare la forma” [Zuliani 2009: p.19].
Il problema delle cadenze – Per marcare l’accento finale del verso “Sono molto sfruttate esclamazioni e interiezioni, come sì, no, dai, eh. Di queste ultime fa un uso frequente e brillante Vasco Rossi: sono le rime del tipo: “Una canzone per te, | non te l’aspettavi, eh?” oppure “voglio una vita maleducata, | di quelle vite fatte, fatte così. | Voglio una vita che se ne frega, | che se ne frega di tutto, sì!”.
L’affabulazione poetico-musicale e il flusso di coscienza della canzone d’autore moderna
Nella canzone d’autore più avvertita si risente l’esigenza di rompere le “forme strofiche chiuse” per articolare un discorso musicale più libero e vario. Naturalmente stiamo parlando degli esempi più alti, quelli, per cintarne i più risaputi, di Fabrizio De André, Francesco Guccini, Paolo Conte e Vinicio Capossela. Assistiamo così alla risorgenza della “prosa poetica”. Per rendersene conto proveremo a fare un sondaggio approfondito, ma per motivi di spazio rimandiamo l’analisi all’articolo: “I versi delle canzoni. La canzone moderna italiana”, in questo stesso sito.
Antonio De Lisa
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Note
1) “Solo tre madrigali -come ha documentato Paolo Cecchi- furono musicati in precedenza: Ancide sol la morte, utilizzato da Luzzasco Luzzaschi nel Sesto Libro de Madrigali a cinque voci (1596), da Antonio Il Verso nel suo Terzo Libro de Madrigali a sei voci (1607) e da Pomponio Nenna nel suo Primo Libro de Madrigali a quattro voci (1613); Tu segui o bella Clori, musicato, con la sola variazione dell’incipit in Tu segui o bell’Aminta, da Alessandro Di Costanzo nel suo Primo Libro de Madrigali a quattro voci (1604, ristampa) e da Nenna nel Quarto Libro de Madrigali a cinque voci (I edizione, ante 1603) e Quando ridente e bella, già comparso nel Quarto Libro dei Madrigali a cinque voci di Scipione Dentice (1602)” [Cecchi 1987: p.63].
Bibliografia
Antonelli 2010
Antonelli, Giuseppe, Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato, Il Mulino, Bologna 2010.
Bianconi 2005
Bianconi, Lorenzo, Sillaba, quantità, accento, tono, in “Il Saggiatore musicale”, XII, 1, pp.183-218.
Bologna 1992
Bologna, Corrado, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna 1992.
Cecchi 1987
P. Cecchi, “Le scelte poetiche di Carlo Gesualdo: fonti letterarie e musicali”, in La musica a Napoli durante il Seicento, Atti del Convegno internazionale di studi, (Napoli 1985), Roma 1987, p. 63
Contini 1970a
Contini, Gianfranco, Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino 1970.
Contini 1970b
Contini, Gianfranco, Letteratura italiana delle origini, Sansoni, Firenze 1970.
Fabbri 1988
Fabbri, Paolo, Istituti metrici e formali, in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi e G.Pestelli, vol.6, Teorie e tecniche. Immagini e fantasmi, EDT, Torino 1988.
Jachia 1998
Jachia, Paolo, La canzone d’autore italiana 1958-1997, Feltrinelli, Milano 1998
La Via 2006
La Via, Stefano, Poesia per musica e musica per poesia. Dai trovatori a Paolo Conte, Carocci, Roma 2006.
Lippmann 1986
Lippmann, Friedrich, Versificazione italiana e ritmo musicale. I rapporti tra verso e musica nell’opera italiana dell’Ottocento, Liguori Editore, Napoli 1986.
Scrausi 1996
Scrausi= Accademia degli Scrausi, Versi rock. La lingua della canzone italiana negli anni ’80 e ’90, Rizzoli, Milano 1996.
Zuliani 2009
Zuliani, Luca, Poesia e versi per musica. L’evoluzione dei metri italiani, Il Mulino, Bologna 2009.
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Antonio De Lisa
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